sabato 3 dicembre 2011

DURBAN, NOVEMBRE 2011

A Durban, al vertice internazionale sull’ambiente, è ancora una volta l’interesse economico particolare di ogni paese a dominare la scena. La crisi è l’ultimo pretesto per rinviare i termini di scadenza di impegni presi a Kyoto in un passato che sembra dimenticato. Ogni crisi è sintomo della necessità di un cambiamento: gli stati devono scommettere su nuovi mezzi di sviluppo, mezzi alternativi, e dunque, per cominciare, alternative fonti di energia; se non per amore dell’ambiente, anche solo per amore del progresso, se è davvero il progresso ciò che i governanti cercano. Un nuovo impulso nell’ economia può (e deve) andare di pari passo con un rinnovato e più sano rapporto con il nostro pianeta.
Ma a Durban i fumi dell’ economia cozzano con la nostra bella terra, e il progresso e la civiltà che l’uomo ha cercato con tanta insistenza in millenni di storia arriva a scontrarsi irrimediabilmente con l’umanità di cui un tempo i nostri sentimenti erano figli.
Io so perché i signori dell’economia, i padroni di quelle multinazionali che muovono i fili delle politiche finanziarie di ogni stato, sono ciechi di fronte al nostro pianeta e a quegli uomini suoi figli che gridano ogni giorno a vuoto, e vivono e muoiono ogni giorno dimenticati, e non conoscono altro che fame e non ne concepiscono la ragione, poiché è innaturale concepirla, è un insano artificio che cancella ogni rimorso.
Io so perché ogni giorno i signori dell’economia, guardando in faccia i loro figli, vedono solo degli eredi scapestrati e nulla più; perché guardandosi allo specchio vedono il fasto dei loro vestiti e nulla più; perché il fumo di quelli che definiscono i loro problemi, li stressa fino ad ammalare il loro animo: ciò che davvero opprime questi gran signori è la paura. Hanno accumulato masse di denaro in vita senza godere di un solo autentico sorriso; hanno acquistato il potere di rendere infelici gli altri, ma non quello di essere felici per se stessi. Ogni istante che passa della loro vita è così solcato dalla paura dell’inconsistenza, paura di non aver colto nulla dalla vita, in quella sindrome di onnipotenza che ha accecato il loro cuore. E non vedono che nulla di quello che hanno ottenuto li ha resi felici; non vedono che, quando la morte chiederà loro il conto, la incontreranno a occhi bassi. Non vedono cosa sono diventati.
E dunque, come per il celebre Mazzarò, la paura si tramuta in egoismo, e i gran signori dell’economia trattengono per sé il loro potere, la loro sciagurata ricchezza, nell’illusione che possa compensarli dello squallore della vita che hanno condotto, nella fugace speranza che i loro freddi calcoli, il continuo, ingordo stimolo alla conquista del possesso possa distrarli dalla loro paura d’inconsistenza, dai loro delitti, dai loro rimorsi.
Ma io non li compiango. A vederli hanno l’aria di saperla lunga, di conoscere il mondo molto meglio dei miseri cittadini che hanno sotto i loro piedi. Eppure io ho la certezza che per le loro colpe essi scontino ogni giorno la stessa, terribile e meritata pena: l’impotenza di uno sconfinato potere materiale di fronte a una sostanziale, insana, cronica infelicità.

Gabriele Pulvirenti

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